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Liliana

Lunedì 20 Gennaio 2025 15:50 Pubblicato in Recensioni
Uno straordinario ritratto di una donna forte, resistente, combattiva, che ha scelto, autoimponendoselo, la vita nonostante tutto.
 
Dopo una brutta depressione ha deciso di raccontare al mondo quello che aveva vissuto (forse non nella sua più brutale versione come sostiene la figlia minore) per estirpare quel male che a soli tredici anni i nazifascisti le avevano inferto segnandola per sempre. Liliana Segre è una delle testimoni italiane più anziane di quel terribile passato.
 
Ancora molto lucida e attiva, svolge un' importante lavoro di divulgazione nelle scuole per raccontare ai ragazzi quello che l' uomo è stato in grado di compiere di terribile nei confronti di altri essere umani, suoi simili. Lo spirito indomito che la contraddistingue, le ha consentito di sopravvivere alla prigionia, alla morte del suo amato padre e dei suoi nonni paterni e le ha permesso di poter risorgere dopo un lungo periodo di buio. Liliana Segre è riuscita a superare le sofferenze atroci che hanno provato non solo il suo corpo ma soprattutto la sua anima e la sua mente. Grazie all' amore di un marito amorevole e la gioia di tre figli. Quel numero 75190 tatuato sull'avambraccio e che neppure il tempo trascorso è riuscito a sbiadire è un segno indelebile sulla pelle ma è soprattutto il marchio che racchiude l' abominio perpetratole. La voce calma e pacata di Liliana Segre racconta l'orrore vissuto senza mai mostrare rabbia, perché il male subito non ha saputo annullare la sua educazione, la sua etica, la sua personalità che è rimasta intrisa di cultura di vita. Sempre, anche nei momenti peggiori, quando poteva essere naturale e anche giustificato un ricorso all'odio. Neppure il sentimento di vendetta riuscì a impossessarsi di lei.  Nemmeno durante la marcia della morte protrattasi per giorni in fuga dal campo di Auschwitz fino ad un campo più decentrato. Costretta dai suoi aguzzini che, sentendosi braccati cercarono di fuggire occultando le prove delle loro nefandezze, avrebbe avuto occasione per uccidere ma non lo fece. Mai avrebbe potuto diventare un'assassina. Il documentario si fregia di una bella fotografia che riprende dall'alto i luoghi simbolo della Milano, città che le diede i natali, il campo di prigionia fino alle aule del Parlamento insignita del titolo di Senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per finire con l'aula Magna dell'Università Statale di Milano per il conferimento della laurea honoris causa magistrale in Scienze Storiche. Con un sottofondo musicale evocativo che accompagna le parole di questa fragile e forte donna è difficile trattenere le lacrime e, dopo la visione, rimanere indifferenti ripensando al dramma di cui è stata protagonista involontaria insieme a sei milioni di uomini e donne, colpevoli solo di essere ebrei. 
 
Virna Castiglioni
 

Io sono ancora qui

Lunedì 27 Gennaio 2025 15:31 Pubblicato in Recensioni

"Io sono ancora qui" è un affresco familiare nel Brasile degli anni bui della dittatura militare. Prima della rivoluzione del 1964 Rubens Paiva era un deputato laburista e aveva tutto quello che un uomo perbene può desiderare per essere felice e condurre un'esistenza appagata. Un lavoro impegnato, una moglie innamorata e complice e cinque splendidi figli che portano allegria e confusione in una bella villa arredata con gusto e tenuta con ordine. Una casa sempre aperta ad amici con cui trascorrere il tempo fra conversazioni serie ma anche tanti momenti conviviali e spensierati. Il pericolo però è appena fuori dalla porta e si fa sempre più aggressivo. È minaccioso. Intimorisce. Sembra poter rivolgere i suoi strali sulla figlia maggiore Veronica che simpatizza per i movimenti studenteschi antigovernativi avversi al Regime.

L' occasione per toglierla da un pericolo che potrebbe lambirla fino ad inghiottirla giunge propizio da una famiglia amica che prende la decisione di trasferirsi a Londra e non esita ad estendere l' invito a seguirli. Loro non accetteranno ma lasceranno che la loro primogenita si allontani in cerca di un futuro migliore.

Tutto sembra tornare ad una pseudo normalità anche se soffiano venti preoccupanti. Si susseguono nel Paese rapimenti di intellettuali e sequestri di ambasciatori che vengono utilizzati come merce di scambio a fini politici. 

Un giorno che sembra essere come gli altri fra l' allegria dei ragazzi che vivono di fronte alla spiaggia e si alternano fra giochi e rientri repentini al solo scopo di mangiare qualcosa velocemente e cambiarsi per poi tornare di nuovo fuori irrompe la violenza. Vile, bieca. 

Il padre viene arrestato e portato in caserma per riferire e chiarire avvenimenti che lo riguardano. Poco dopo la stessa sorte verrà subita dalla moglie e dalla secondogenita. Se per le due donne l'incubo fortunatamente giunge ad una conclusione veloce il padre e marito amorevole, invece, non farà mai più ritorno. Il regista Salles ci racconta una delle peggiori pagine della Storia del Paese carioca ma, a differenza di molte altre pellicole, sceglie di raccontare il dramma dal punto di vista di chi resta, di coloro i quali devono affrontare una perdita ma devono anche farsi forza per andare avanti. La madre Eunice lo deve ai suoi cinque figli. Si impone di rimanere lucida e razionale, cerca con ogni mezzo a sua disposizione di proteggere chi è stato investito da un dolore troppo grande senza averne colpe e senza poter sapere le reali motivazioni che hanno determinato questa situazione.

Per questo racconto di resistenza, pacifico e composto, il regista si avvale di un' attrice immensa che da metà pellicola in avanti porta sulle sue minute spalle tutto il peso della narrazione. 

Intensa e perfettamente in parte nel rappresentare la dignità e la compostezza di chi non può permettersi il lusso di piegarsi al dolore ma deve imporsi di sorridere e cercare di regalare alla propria famiglia, sebbene mutilata e umiliata, una parvenza di normalità conservando un po' dell'armonia che regnava prima che tutto precipitasse. 

Il film è tratto dal romanzo omonimo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva ultimogenito della coppia protagonista della pellicola e, al tempo dei fatti, solo un bambino che viveva felice in un gineceo di sorelle più grandi.

Con una rigorosa ricostruzione degli avvenimenti, senza mai calcare la mano, il regista restituisce allo spettatore una sincera e profonda commozione. 

La regia appare misurata, senza eccessi. Non esagera nel mostrare ma semmai fa intuire senza esporre troppo. Non racconta mai più del necessario. 

La fotografia firmata da Adrian Teijido restituisce la bellezza naturale di un luogo baciato dal sole, ne cattura tutta la desolazione quando l' ambientazione è la claustrofobica cella di detenzione o l' ufficio tetro e buio dove si svolge l' interrogatorio sommario, sottolinea la nostalgia e la sofferenza quando si è costretti ad abbandonare la casa familiare per iniziare una nuova vita che avrà colori diversi. 

Il commiato affidato ad un'altra attrice cara al regista suggella con un tocco di tenerezza quello che rimane di una straordinaria storia che assurge a simbolo di migliaia di altre storie simili e uniche in un Paese che ha costretto interi nuclei familiari a fare i conti con una pagina cupa della Storia che ha distrutto vite, cambiato destini, sparso immenso e gratuito dolore ed è rimasta nella memoria collettiva come una ferita che non si è mai rimarginata del tutto ma rimane ancora oggi pulsante e suppurante. 

Presentato in concorso all' ultima mostra internazionale cinematografica di Venezia il film si è aggiudicato, meritatamente, il premio per la migliore sceneggiatura. L' attrice protagonista non è stata insignita della prestigiosa Coppa Volpi ma è riuscita a conquistare il Golden Globe e questo risultato è il giusto coronamento di un lavoro attoriale superbo. 

Virna Castiglioni

 

Wolf Man

Giovedì 16 Gennaio 2025 15:24 Pubblicato in Recensioni
Il film sfrutta una serie di luoghi comuni tipici del genere al quale afferisce. L’ambientazione è una casa isolata al limitare del fitto bosco che rasserena e concilia durante il giorno ma può diventare inquietante e spettrale al calare della notte. Il male è fuori dalla porta, in agguato, sempre pronto ad attaccare.  La montagna che incombe è foriera di miti e leggende. Pur sforzandosi di introdurre qualche elemento di discontinuità rispetto all’originale racconto di licantropi non si riesce nell’operazione di trascinare lo spettatore in un vortice di sorpresa e stupore perché tutto avviene con molta prevedibilità. I momenti tensivi si sciolgono quasi sempre come ci si aspetta che debbano concludersi. Si assiste ad una lotta con il nemico che da esterno, estraneo si fa intimo e personale e chiama in causa la capacità di scindere tra affetti e istinto di sopravvivenza ma questo topos rimane in superficie.
 
Un horror puro che ha molti limiti a partire dalla storia che vede l’utilizzo massivo di elementi già indagati ed esplorati a sufficienza in pellicole anche di recente realizzazione. Un film che ripropone gli stessi schemi già visti e che perde quindi l’effetto straniante e avvincente delle prime volte e della sorpresa nel trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato e di originale.
 
Julia Garner sembra spaesata all’interno della pellicola e le sue espressioni di paura e terrore sono poco realistiche. Appare troppo enfatica, teatrale, forzata, facendo perdere quella naturalezza che è la cifra vincente della recitazione in questo tipo di pellicole.
 
Decisamente più convincente la performance attoriale del protagonista maschile Christopher Abbott che appare più disinvolto e calato nella parte. Da salvare senza ombra di dubbio tutte le scene in cui avviene progressivamente la trasformazione da umano ad animale che è ben documentata riuscendo a scandire in modo dettagliato le vari fasi a cui va incontro mantenendo un buon equilibrio fra aspetto fisico e quello più psicologico.
 
In generale un film che non apporta uno svecchiamento rispetto ai film datati riguardanti lo stesso argomento ma anzi ne sembra una copia sbiadita senza mordente.
 
Un film che si segue sperando fino all’ultimo di poter assistere ad un colpo di scena eclatante che riabiliti l’intera pellicola rimanendo purtroppo delusi e disillusi.
 
Una prova non superata fino in fondo pur mantenendo un livello ragguardevole per quanto concerne la fotografia, l’utilizzo degli effetti speciali incentrati sulla trasformazione da umano ad animale ma che avrebbe bisogno di esser revisionato per quanto concerne la sceneggiatura e l’utilizzo delle riprese di momenti topici della narrazione che risultano artefatti e poco incisivi rispetto a quanto sarebbe stato necessario per conseguire un buon risultato.
 
Virna Castiglioni

Oh Canada - I tradimenti

Giovedì 16 Gennaio 2025 15:17 Pubblicato in Recensioni
A distanza di oltre quarant’anni Paul Schrader e Richard Gere tornano a collaborare per portare sul grande schermo la biografia di Leonard “Leo” Fife, documentarista statunitense naturalizzato canadese. Tratto dal libro “i tradimenti” (Foregone) di Russell Banks il racconto è una lunga intervista che Fife in punto di morte e, assistito dall’ultima giovane moglie, concede a due dei suoi migliori ex alunni per svelare i segreti della sua vita facendo emergere verità tenute nascoste agli altri e un po' celate anche a se stesso.
Gere ha sempre la statura che lo ha consacrato attore di talento, il contraltare Job Elordi che interpreta lo stesso personaggio in età giovanile ha ancora una lunga strada da percorrere anche se il suo ricco potenziale è già evidente.
Il film non suscita particolari emozioni, si mantiene tiepido e quasi didascalico. Quello che emerge, con forza nell’impianto, è la padronanza del mezzo cinematografico da parte di un regista che sa di essere bravo e non perde occasione per mettere in mostra le sue doti di cineasta navigato.
Utilizzo di due formati di ripresa diversi: fullscreen e widescreen, uso sapiente di bianco e nero e colore, alternanza funzionale di primi piani e panoramiche, combinazione di realtà e finzione, presente infarcito di flashback ben raccordati.
Purtroppo non basta affidarsi totalmente alla tecnica e alla bravura degli interpreti scelti per costruire un racconto in grado di rimanere nel cuore e nella mente dello spettatore. Qui c’è molto mestiere ma molta poca anima e si arriva alla fine della proiezione senza esserne troppo dispiaciuti.
Il lungometraggio non ha la forza propulsiva affinché lo spettatore si possa immedesimare o quanto meno possa capire, forse anche giustificare le scelte compiute oppure semplicemente odiare per il modo disinvolto e per nulla rispettoso degli altri di condurre l’esistenza.
Per tutta la durata si viene investiti da una serie di fatti, di episodi, di circostanze, di avvenimenti che non sono però mai anche supportati dalla giusta dose di pathos. Per questo il racconto rimane forse fedele al vero ma risulta poco interessante, non memorabile, scivola nella mente che non rimane impressionata, colpita, non tocca le giuste corde del cuore e non interroga l’anima. Tutto si mantiene neutro con nessun momento di vera commozione, di vero patimento, di vicinanza o repulsione ad un uomo che si spoglia in punto di morte della maschera della rispettabilità.
Assistiamo alla registrazione di una confessione ma non siamo portati ad empatizzare e dopo poco siamo anche un po' annoiati dalle imprese di un uomo che codardamente riesce a farsi riformare dall’esercito americano, vorrebbe prendere parte alla rivoluzione castrista a Cuba ma non riesce ad andare oltre la Florida, diserta in Canada e nel frattempo vive, in modo libertino la sua vita sentimentale, non curante di fare del male a donne e ai figli che ne conseguono.
Acclamato e osannato nella vita pubblica la sua confessione prima di spirare è il rovescio della medaglia che cela il lato più vigliacco e superficiale dell’aver vissuto i rapporti umani fuggendo in continuazione dalle responsabilità inseguendo un sogno che mutava repentinamente e non gli lasciava mai il giusto tempo di prendere la decisione meno egoistica e decisamente più nobile.
 
Virna Castiglioni