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Babygirl

Lunedì 27 Gennaio 2025 16:13 Pubblicato in Recensioni

Nicole Kidman che, grazie a questa interpretazione ha ricevuto l'ambita Coppa Volpi per la migliore attrice protagonista fra i film presentati in Concorso all' ultima Mostra internazionale del Cinema di Venezia, è una donna in carriera, a capo della sua società che utilizza la robotica per migliorare l'efficienza dei processi. È una madre amorevole di due figlie adolescenti e una moglie orgogliosa di un regista teatrale impegnato. Ha tutto quello che una donna contemporanea potrebbe desiderare per sentirsi appagata. Invece a Romy manca una cosa fondamentale, da sempre: la felicità sotto le lenzuola. Non ha alcuna intesa sessuale con il marito Jacob e si accontenta di raggiungere l'orgasmo, da sola, mentre guarda film porno che hanno per tema la dominazione. Una routine di coppia falsa e frustrante per lei fino a quando incontra, proprio sul lavoro, un giovane e sensuale ma soprattutto intraprendente stagista che intercetta il suo bisogno intimo e nascosto ed è pronto a venire in suo aiuto. Non senza esigere un tornaconto personale. Questo aspetto dell' ottenimento di un beneficio, a breve o a lungo termine, è un aspetto che rimane un po' latente all' interno della pellicola ma è molto interessante. 

Il sesso è un mezzo potente per arrivare dove si vuole a patto che lo si sappia usare. È un' arma che può ferire, uccidere ma è anche il grimaldello che ci fa acquisire potere e ci permette di tenere in scacco chi vogliamo. A patto di essere capaci di condurre il gioco. 

Dickinson che interpreta il giovane Samuel sa come fare per soddisfare Romy a patto che il tutto si mantenga a livello di gioco erotico. Nessuna implicazione sentimentale e nessuna fantasia che implichi un' evoluzione della storia. Uno comanda e l' altro obbedisce. Il padrone che addestra la sua cagna e la ricompensa se fa tutto quello che deve. Senza ribellarsi. Senza volere di più. 

Non si tratta di un innamoramento, si cercano perché ciascuno ha da dare all'altro quello che all'altro manca. Lei abituata ad avere il controllo, a comandare gli altri, ad imporre ordini da eseguire senza battere ciglio, nella sua intimità ha bisogno invece di avere un padrone, qualcuno che le imponga comandi, che la sottometta. È un gioco rischioso perché tutti e due hanno molto da perdere. Lei la reputazione ma ben altro se si dimostrasse che si sia trattato di abuso di potere nei confronti di un subalterno. Lui l' amore della sua ragazza con la quale ha il progetto di formare una famiglia. 

Un film ad alto tasso erotico ma che si mantiene formale ed elegante. Nicole è perfetta nell' incarnare una donna bella, anzi bellissima e la scena in cui appare nuda è lì a testimoniare la prova di essere ancora molto piacente, a dispetto dell' età che più per vezzo che per reale necessità le impone di cedere alle lusinghe del botox.

La pellicola gioca sul filo del rasoio, si spinge fino ad un certo punto ma poi torna indietro. Alla fine del gioco vincono tutti e si disegna un happy end che quasi fa ridere. Lo stagista sarà allontanato ma guadagnerà un ruolo di prestigio in un' azienda importante. 

L' assistente personale di Romy che ha intrapreso una relazione sentimentale con lo stesso uomo che serve a lei per soddisfare i suoi impulsi sessuali avrà una promozione certa. Lei anche se confesserà tutto al marito ne otterrà comprensione sebbene un' iniziale allontanamento. Quello che poi banalizza un po' tutto e fa pensare che il sesso è sicuramente uno dei motori del mondo ma non l'unico è l' estremo lusso nel quale si sceglie di ambientare la storia. Il sesso è un mezzo potentissimo ma anche i soldi sono l'altro ingrediente indispensabile perché il gioco funzioni e faccia divertire tutti, senza che nessuno si faccia troppo del male. 

Virna Castiglioni

Itaca - Il ritorno

Lunedì 27 Gennaio 2025 16:07 Pubblicato in Recensioni

"Itaca - il ritorno" fa di tutto per spogliarsi della prosopopea e della magnificenza che da sempre accompagnano i racconti epici che sono contenitori immensi dove scorrono tematiche di ampio respiro e di interesse universale. Il regista Uberto Pasolini non mostra mai l'eroe, il re, il combattente, il guerriero ma cerca in tutti i modi di mostrare sempre e solo il lato umano di Odisseo. Lo spoglia della sacralità del personaggio, lo umanizza mettendo in evidenza le sue fragilità, lo rende invisibile, lo fa scomparire nelle pieghe della Storia che sembra non avere più importanza. Ulisse è un uomo solo, uno sposo, un padre mancato e infine un figlio che deve riappropriarsi di tutti questi ruoli che paiono essere stati dimenticati. Penelope, la madre, il figlio Telemaco e i suoi sudditi lo trattano da mendicante, lo cacciano dal suo palazzo, lo lasciano ai margini. Il figlio lo osteggia. La moglie lo studia in silenzio. Pasolini riduce al minimo i dialoghi e lascia il più possibile parlare i corpi. Estremo e catartico quello di Ralph Fiennes che appare segnato da cicatrici evidenti che sono lo specchio di quelle interne lasciate da vent'anni di peregrinazioni lontano dal suo Regno. Nonostante questo, il film non infonde passione, non emoziona, rimane asciutto, asettico quasi. Non ci sono momenti di vero e proprio pathos. Anche nella scena di massimo climax è sempre tutto molto ragionato, ingessato. Si assiste ad una rappresentazione che sembra essere troppo didascalica, troppo pulita e troppo lineare.

Troppo trattenuto, compassato. In questo ritorno parlano gli sguardi. In primis gli intensi occhi azzurri di Ralph Fiennes che scrutano quello che è rimasto della sua terra che saggia per capire se è rimasta la stessa che lo ha visto partire. Con lo sguardo entra in comunione con l' anziana madre, ritorna ad amare la moglie e cerca di riconquistare il figlio che ha sempre conosciuto solo l'assenza del padre nel ricordo degli altri. Juliette Binoche che torna a fare coppia sul set con Fiennes, dopo il capolavoro de "Il paziente inglese" di Minghella è l' altra colonna portante della pellicola. Chiudono il cerchio Angela Molina intensa madre colpita dal lutto della perdita del marito e padre di Ulisse Laerte e prima a riconoscere il figlio. Claudio Santamaria, nei panni dello schiavo Eumeo, dovrebbe fare da ponte fra Ulisse e i suoi sudditi ma assume, pur essendo un ruolo basilare, un' importanza residuale non riuscendo a rappresentare la forza della resistenza nei confronti dei proci che spadroneggiano impuniti. Un film che ha delle buone intenzioni che si disperdono in mille rivoli. Adottare un punto di vista alternativo poteva essere una buona base di partenza ma in questo caso rimane avvinghiato in certi canoni estetici che fanno comunque emergere troppo e a sproposito la teatralità della storia. Costumi, trucchi, acconciature appaiono troppo finte ed esagerate e anche un po' anacronistiche come gli occhi bistrati di nero e il rossetto rosso di Juliette Binoche di una bellezza folgorante ma poco contestualizzata al pari dei proci che hanno tutti pettinature moderne e monili contemporanei che li fanno apparire un po' rock star fuori luogo. 

Virna Castiglioni

Luce

Giovedì 23 Gennaio 2025 16:00 Pubblicato in Recensioni

"Luce" è interamente sorretto dall' intensa interpretazione della protagonista Marianna Fontana. Per l'intera durata i registi Bellino e Luzi utilizzano primi e primissimi piani per scrutare e restituire allo spettatore ogni suo stato d'animo e ogni cambiamento, anche millimetrico, che si determina con il passare dei giorni e degli avvenimenti che si susseguono. Il suo giovane viso è la cartina di tornasole di quello che ha intorno ma che appare sempre sfocato, indistinto, evanescente. Il contesto è un luogo fisico che sembra però essere immaginario e immaginifico. La regia blinda lo spettatore e non gli concede quasi mai di allargare lo sguardo, anche nelle poche scene che prevedono la presenza di altri personaggi è sempre tutto ricondotto a questa giovane ragazza e al suo modo di reagire a quello che subisce quotidianamente. È sola, svolge un lavoro usurante, non ha un amore, vive di desideri. Per resistere in quel deserto culturale che attraversa si costruisce un personaggio che diventa il suo alter ego, una donna ideale che potrebbe essere se non fosse compressa, costretta in un luogo squallido, a condurre una vita miserabile, privata degli affetti più cari. Si inventa un modo per evadere dalla sua prigionia mentale cercando di raggiungere l'unico legame di sangue che ancora le rimane. Il padre  detenuto che non vede da anni. Grazie ad una intuizione (un telefono recapitato con un drone) e, ricercando la complicità di un estraneo, potrà ripristinare, forse, un dialogo interrotto. Da questo momento in poi il colloquio telefonico con il padre (vero o presunto) diventerà lo sprone per alzarsi al mattino, l' unico motivo di vita, talmente importante da rischiare punizioni. Sarà il solo unico confidente, diventerà l'amico, il fulcro di tutto. Il film ripropone uno schema già visto in altre pellicole passate. Tra tutte "Locke" di Steven Knight e il film italiano di Manfredi Lucibello "Non riattaccare". Non sempre però funziona questo gioco teso fra un personaggio che vive alla luce del sole anche se è pieno di lati oscuri e un' altro che non conosceremo mai se non attraverso la voce (in questo caso quella profonda e intensa di Tommaso Ragno), nell' ombra ma in grado di portare uno spiraglio di luce in chi lo ascolta.

Un film che, con coraggio e un po' di spregiudicatezza, indaga l' animo umano. Fa di tutto per restituire i sentimenti e le emozioni che si possono provare quando si vive una vita di privazioni, in primis affettive, non si ha una direzione, un esempio da seguire, non si trovano appigli e proprio come un gattino che prova ad allontanarsi per cercare qualcosa di migliore non riesce più a trovare la strada di casa.

Un film intimista che non arriva immediatamente ma ha bisogno di sedimentarsi nell' animo e nel cuore dello spettatore che rimane a lungo in attesa di una svolta, di un colpo di scena ma si deve accontentare di un finale aperto sperando in un lieto fine.

Virna Castiglioni

A Complete Unknown

Giovedì 23 Gennaio 2025 15:55 Pubblicato in Recensioni
Nel 2016 Bob Dylan ottiene il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana» ma, come se fosse cosa ordinaria, non si presenta neppure alla cerimonia di premiazione. Allergico ai riconoscimenti, antidivo per eccellenza e refrattario al successo sebbene sia diventato uno dei più grandi di tutti i tempi.
 
Il biopic  “A complete Unknown”  del regista James Mangold (che già si cimentò nel 2005 con un altro biopic incentrato sulla figura di Johnny Cash, altro mito americano) ripercorre le tappe salienti della carriera artistica di Bob Dylan ed è liberamente ispirato al libro biografico scritto da Elijah  Wald “Dylan Goes Electric”.
 
Fulcro della narrazione è, come giusto che sia, la musica di questo cantautore eclettico e innovativo, poeta e artista visionario dall’incredibile talento musicale che ha spaziato tra vari generi (folk, country, jazz e swing, blues, rock e rockabilly) fondendoli e reinventandoli. Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) il film pone l’accento sul suo contributo importante e dirompente nell’utilizzo del suono elettronico all’interno della tradizione della musica folk. Dylan seppe compiere una vera e propria rivoluzione copernicana che lo fece percepire dal suo pubblico adorante dapprima come un alieno, un traditore, un ingrato, un impostore. Invece Bob era solo un pioniere che aveva capito il potenziale della contaminazione fra generi e ne aveva saputo fare un uso di grande impatto.
 
Timothée Chalamet, anche in questa nuova prova, per nulla facile, si conferma attore di spessore capace anche di non deludere nell’interpretazione dei tanti brani (oltre quaranta canzoni appartenenti all’arco temporale 1961-1965 registrate dal vivo anche se non tutte utilizzate), eseguiti senza l’ausilio del playback, che costellano la pellicola.
 
Reso molto somigliante al giovane Bob soprattutto dall’acconciatura rimasta pressocché sempre identica riesce nell’impresa di renderlo in modo aderente al vero dal punto di vista non solo estetico ma anche raggiungendo in pieno l’obiettivo di farlo ricordare nei modi di fare e nel modo di pensare e agire. Una prova superata a pieni voti. Nel cast è affiancato da altri attori di elevato calibro: fra tutti spicca Edward Norton che interpreta Pete Seeger.
 
Quello che, pur non disturbando la visione, non è entusiasmante è la cronaca dei suoi amori importanti. Vengono raccontati come se si dovesse per forza fare il computo delle storie avute ma senza infondere particolare trasporto o emozione.  Molto intensi, invece, sia il primo incontro che il commiato finale di Dylan con il suo idolo, il cantante e chitarrista folk Woody Guthrie, che era molto malato.  Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) Dylan ha rappresentato il trait d’union fra la vecchia guardia della musica folk americana e un nuovo modo di scriverla e cantarla.
 
Il film, volendo tentare una estrema sintesi, si può definire uno scrigno che racchiude magnetica bellezza, maniacale cura, fascino senza tempo ma soprattutto rende merito alla musica sublime composta e interpretata da questa icona mondiale.
 
Virna Castiglioni