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Ghost Detainee – Il caso Abu Omar

Lunedì 05 Febbraio 2024 09:22 Pubblicato in Recensioni
Il documentario Ghost Detainee – Il caso Abu Omar incentrato sulla figura dell’imam della moschea milanese ci riporta all’anno 2003. Un anno fondamentale per la lotta al terrorismo internazionale.  Le truppe americane entrano in Iraq. Saddam Hussein è il ricercato numero uno e ogni pretesto è buono per vendicare l’attentato alle Torri Gemelle del 2001.
 In questo contesto avviene il rapimento dell’Imam della moschea milanese di viale Jenner Abu Omar.
 Rapimento che viene acclarato sia stato compiuto ad opera di agenti della CIA con la collaborazione anche dei servizi segreti italiani. E’ la politica attuata dagli Stati Uniti D’America della “rendition” ossia sequestrare un nemico e portarlo in Paesi dove i diritti umani sono palesemente violati facendogli subire vessazioni e torture di ogni genere. Il documentario ricostruisce con dovizia di particolari e senza paura di venire smentiti tutta la vicenda che ha portato l’emersione della verità attraverso interviste ai reali protagonisti della vicenda.
 Siamo edotti circa un attacco grave che ha subito la democrazia del nostro Paese che, per la prima volta, è stato messo in atto da una potenza alleata. Un incidente che usurpa la sovranità del nostro Stato che è inviolabile da chiunque. La vicenda ha anche molti risvolti sconcertanti a partire dalla perdita di tempo iniziale circa l’accertamento della dinamica dei fatti che potesse aver portato al rapimento di un personaggio considerato non pericoloso sebbene attenzionato dalla Procura per la sua attività di guida della comunità islamica sul nostro territorio ma soprattutto non sospettato di appartenere a gruppi terroristici o a cellule dormienti della jaad. Le acquisizioni delle celle telefoniche vengono consegnate alle autorità inquirenti che le hanno richieste con un range temporale sfalsato addirittura relativamente all’anno rispetto a quello incriminato. Ben quattro governi italiani di colore politico differente guidati rispettivamente da Berlusconi, Prodi, Monti e Letta non hanno mai avuto la forza e il coraggio di andare fino in fondo facendo giustizia e condannando a pena certa coloro i quali si erano resi protagonisti di questi reati gravissimi contro lo Stato italiano. Ci si è sempre appellati alla Ragion di Stato, al segreto che avrebbe compromesso la sicurezza del nostro Paese e non si è potuto procedere nei confronti degli appartenenti all’intelligenze italiana collaborante con gli agenti della CIA. Per questi ultimi, tutti condannati non è stata mai presentata formale richiesta di estradizione e di fatto non hanno mai pagato per le conseguenze nefaste delle loro azioni. Solo due agenti catturati in altri Stati avrebbero potuto essere assicurati alla giustizia ma in questo caso si è preferito utilizzare lo strumento della grazia. Abu Omari è stato risarcito per le torture inflitte ingiustamente solo dal governo italiano e sebbene condannato per altri reati anche per lui non si è mai richiesta l’estradizione.
 Una vicenda buia che interroga la società civile sul significato più alto e profondo di democrazia, di tutela dei diritti umani, di giustizia e legalità e ci espone come Occidente a critiche feroci di chi insinua che il nostro ordinamento giudiziario ha falle e non risulta migliore se non riesce a punire chi persegue i suoi nemici con gli stessi aberranti metodi che a parole si professa di voler condannare e provare a sconfiggere.
 La regia è molto attenta e scrupolosa e, attraverso un montaggio molto ben calibrato, ci conduce al nucleo della verità senza annoiare, senza appesantire la narrazione dei fatti, tenendo sulla corda e appassionando alla storia che aveva avuto un grande risalto mediatico per venire progressivamente eclissata, con la precisa volontà di farla rimanere ben sepolta e, grazie a questo insabbiamento, innocua.
 
Virna Castiglioni 
 
 

Grande successo per L’Elisir di Leonardo Da Vinci e la Banda del Buffardello, nelle sale cinematografiche dal 14 Marzo 2024.

Dopo l’esplosivo debutto a Napoli, infatti, il film che, sotto la regia di Mario Chiavalin, ha provveduto ad espandere l’universo de La Banda del Buffardello e il manoscritto di Leonardo Da Vinci – disponibile su Amazon Prime Video – ha fatto tappa a Padova, principale scenografia dell’operazione, ottenendo positivo riscontro.

Dopo anni di separazione e ritorno alla vita quotidiana, tutto cambia quando Max Mosley, un ricco produttore americano, propone di riunire la banda. Mosley ha scoperto una pergamena firmata da Leonardo Da Vinci, contenente la ricetta di un vino speciale: l'elisir d'amore. Ma la creazione di questo elisir richiede la soluzione di enigmi intricati. Così, la banda si riunisce per affrontare la sfida, seguendo le tracce e gli indizi lasciati dal più grande Genio della storia, tra gag esilaranti e momenti indimenticabili.

 

AppMovie e Virgo Holding hanno dunque radunato la vecchia squadra e introdotto nuovi personaggi destinati a lasciare il segno per una nuova avvincente e indimenticabile avventura. Infatti, accanto ai già collaudati Pippo FrancoMaurizio MattioliSalvatore MisticoneUmberto Smaila e Loretta Micheloni troviamo stavolta gli emergenti Luca Marchi, noto nel mondo drag come Luquisha, Miss LindaMichela Pino Angelo (Mister Ax), sosia ufficiale di JAX, Erika Franceschini e Anna D’Auria, più Sergio Vastano, iconico volto comico della popolare trasmissione televisiva anni Ottanta Drive in e di tante famose commedie.

 

L’Elisir di Leonardo Da Vinci e la Banda del Buffardello vanta inoltre la presenza dei giornalisti Gianluca Versace e Paolo Braghetto rispettivamente nei panni del notaio di Nestore Calosi e del simpaticissimo Don Mario. Il tutto per un viaggio nel fantastico mondo del genio rinascimentale, intriso di umorismo e avventura. 

E non è finita, in quanto AppMovie e Virgo Holding diffonderanno nei prossimi mesi altre due opere già pronte: Il Circo delle Meraviglie, interpretato, tra gli altri, da Pippo Franco, Remo Girone e Iva Zanicchi, e Altrove.

 

Raffa

Mercoledì 27 Dicembre 2023 11:48 Pubblicato in Recensioni
La Pelloni e la Carrà. E’ su questa dicotomia che l’opera diretta con passione e affetto da Daniele Luchetti si regge saldamente in piedi, sintetizzando in tre puntate parte della vita e della carriera di Raffaella Carrà. La forma è quella di una ricostruzione in ordine cronologico, partendo da un’infanzia complicata segnata indelebilmente dall’abbandono di un padre che da quel momento in poi non farà mai più parte della vita di Raffaella. Una famiglia quella della Pelloni, composta quindi da donne che dimostrano tanta premura quanta rigida disciplina,  una tra tutte la mamma, figura severa e critica. A Bellaria, la giovane Raffaella muove i primi passi tra concorsi di bellezza accompagnata sempre da quella continua ricerca di un modo per esprimersi, che non si concretizza né con la danza né con il cinema. Ma dove non arrivano questi due mondi, arriva la televisione che travolge e viene travolta dall’energia di questa figura capace come nessuna mai di ipnotizzare tutti con corpo e sguardo. Un’epifania a cui seguirà l’inesorabile e incontrollabile ascesa verso un successo planetario che farà di lei il simbolo del peccato e della tradizione, dell’evoluzione del costume di un paese, il termometro di una rivoluzione sessuale che scoppierà a breve e violentemente. La scrittura immediata e limpida di Cristiana Farina (Mare Fuori), disintegra ogni genere di sovversione documentaristica, muovendo nel più classico degli impianti, senza però cedere il passo ad un eccesso encomiastico. Ai materiali di repertorio (sono circa 1500 immagini) tra cui spiccano interviste inedite alle donne della famiglia Pelloni, al nipote e a Barbara Boncompagni, figlia di Gianni, vengono affiancate scene di finzione evidentemente usate per stemperare quel senso di venerazione da parte di Luchetti, ma che forse poco giocano a favore dell’opera e molto guastano. Al contrario, un profondo innesto sul piano emozionale è rappresentato dalle sequenze in cui alcuni manichini con i vestiti più rappresentativi ci appaiono nei luoghi del cuore di Raffaella, con toccanti riferimenti a ricordi ed episodi della sua vita. La voice over riempie quello spazio lasciato vuoto, mentre quegli abiti di scena diventano significante e baluardo di un divismo mai snob, sempre diretta espressione del pop. A ridimensionare l’enorme successo e le conseguenze che esso porta con sé c’era il suo doppio, rappresentato dalla Pelloni:  quella concretezza e quel vigore tipicamente romagnoli che hanno sempre fatto di Raffaella una donna risoluta. Daniele Luchetti riesce a misurare i due intenti, ossia quello di ripercorrere le tappe della vita di una donna fragile e possessiva e la sua scalata verso il successo diventando simbolo di una lunga battaglia di rivoluzione e affrancamento dal perbenismo dell’industria televisiva italiana. Una serie travolgente che comunica a tutti, alle generazioni che ricordano e a quelle che non erano ancora nate. E per questo forse, l’unico vizio che gli si può contestare è l’imperdonabile brevità. 
 
 
Giada Farrace 
 

Dune - Parte II

Mercoledì 28 Febbraio 2024 11:35 Pubblicato in Recensioni
“Lisan al Gaib!” così il popolo nomade dei Fremen, abitatori del deserto, chiama il Messia, giunto per guidarli verso “un pianeta verde” divisi tra chi seguendo una (costruita) profezia vede già questa figura religiosa nel protagonista di questo viaggio, Paul Atreides (Timothée Chalamet) e chi no. Il ragazzo è scappato durante la notte ad un attentato contro suo padre è figlio di un duca e di una sacerdotessa del culto di “streghe” Bene Gesserit, Lady Jessica (Rebecca Ferguson). Dalle pagine del libro di Frank Herbert fino ad arrivare alla trasposizione cinematografica di Denis Villeneuve, Dune rappresenta un testo “sacro” della fantascienza. Di sfondo una guerra di potere tra casate che si contendono il controllo della Spezia, una sostanza stupefacente in grado di prevedere il futuro e permettere un espansione del proprio dominio grazie ai viaggi interstellari. Qui il regista canadese riscrive (in parte) mantenendo le linee guida dell’originale e una forte corrispondenza con il libro, la sua versione del primo tomo e ne fa una trilogia divisa in tre film, il primo nel 2021 (uscito con il titolo omonimo “Dune”)  fungeva da prologo ed ora possiamo vederne lo sviluppo di quella storia in Dune: Parte 2. “La prima parte è un film contemplativo, mentre la seconda parte è un film di guerra epico e infarcito d’azione” così Villenuve ha descritto i suoi film e senza dubbio non ci sarebbe descrizione più appropriata. Nel contendersi il controllo sul pianeta Arrakis dove si svolge questa epica Space Opera, ci sono altre forze in gioco: i crudeli e spietati Harkonnen guidati dal barone Valdimir Harkonnen (Stellan Skasrsgard) e dai suoi nipoti rivali Rabban (Dave Bautista) e il na-barone Feyd-Rautha (Austin Butler). Violenti, succubi della loro stessa sete di potere con la percezione di essere superiori vantano astronavi e armi avanzatissime. Un’altra forza in gioco è l’impero retto dall’anziano Shaddam IV (Cristopher Walken) e sua figlia la principessa Irulan (Florence Pugh) complici anche loro nello scrivere il fato di Paul. A tirare le fila dietro il volere dell’imperatore, la “magia” delle “streghe” del culto  Bene Gesserit senza la quale niente avrebbe lo stesso esito. La vita di Paul però che sembra sembra sempre essere nelle mani di altri viene cambiata da un altra figura, una giovane ragazza guerriera, del popolo del deserto Chany Kynes (Zendaya) per cui inevitabilmente perde la testa. Il regista si è vaso di due stelle nascenti di Hollywood per assicurarsi il favore delle nuove generazioni adattando un romando del 1965, che ha un messaggio terribilmente attuale. Timotée Chalamet e Zendaya hanno diviso il pubblico di affezionati dal principio perché molto diversi dalle loro controparti cartacee e rappresentano l’unico punto potenzialmente debole del progetto. Il film con la sua durata di 165 minuti vanta effetti visivi di livello ed un incredibile comparto sonoro: il verme delle sabbie, una creatura centrale all’interno della narrativa viene pre-annunciato da un profondo rumore prodotto dallo strumento chiamato martellatore, reso in modo eccellente. Dune non sarebbe lo stesso senza la colonna sonora solenne di Hans Zimmer,  che aveva scritto anche le musiche del primo film perché affezionato dall’adolescenza al materiale di partenza. L’intera operazione dietro lo sviluppo di Dune sta lentamente lasciando un segno, come una clessidra che un granello alla volta accompagna l’inesorabile avanzare del tempo, qui voltata, ci riporta indietro alla vera fantascienza e verso il termine della storia che lo consacrerà metaforicamente, come un moderno vangelo, alle nuove generazioni.
 
Francesca Tulli