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Visualizza articoli per tag: virna castiglioni

Thelma

Mercoledì 18 Settembre 2024 17:38

"Thelma" è una dolce nonna di 93 primavere rimasta vedova ma ancora in grado di badare a sé stessa, nonostante le riserve dei familiari che la vorrebbero controllare anche a distanza attraverso l' utilizzo di un dispositivo elettronico. Un giorno, sola in casa, riceve la telefonata di due truffatori che si fingono prima il nipote vero artefice di un incidente stradale che ha causato il ferimento di una donna incinta e poi del complice che gli intima di depositare in una casella postale ben 10.000 dollari per poter pagare la cauzione e permettere il rilascio del giovane accusato di aver provocato il sinistro. Questo evento vile scatena in un attimo la confusione di Thlema che si precipita in preda ad una forte agitazione all'ufficio postale per inviare il denaro quanto prima e cercare di dare una mano, per quanto è in suo potere. Nel frattempo allerta i familiari che, in breve tempo, si accorgono del raggiro e, pur cercando di rassicurarla, si convincono che la loro parente non può più rimanere in balia di sé stessa senza rischi. Un film che prende spunto da fatti di cronaca sempre più frequenti che interessano persone fragili e vulnerabili e su questi avvenimenti costruisce una brillante commedia sul senso della vita. "Thelma" parla del tempo che scorre inesorabile erodendo affetti che se ne vanno, di malattie che subentrano minando autonomia e indipendenza ma soprattutto rammenta che il vero dramma del secolo nel quale viviamo è rappresentato dalla solitudine che può diventare prigione per chi non può contare su una rete familiare di supporto che possa accompagnare nel difficile passaggio dalla vita attiva a un' esistenza che necessita di sempre maggiore e costante assistenza.

Il film alterna, mantenendo un buon equilibrio fra le parti, momenti esilaranti e situazioni paradossali al limite del credibile con altre decisamente di tono più intimistico e riflessivo. Questa alternanza fra il registro più comico e quello più serio e compìto funziona molto bene nell'economia della pellicola.
La vera nota debole dell' impianto narrativo è la deriva action che dirotta il film su un road movie un po' troppo eccentrico e, per certi versi, fin troppo banale. Le avventure divertenti di Thelma all'inseguimento dei malviventi sono divertenti ma, alla lunga, stancanti.  Nel complesso "Thelma" rimane un film gradevole, spassoso, che diverte ma fa anche riflettere sul senso ultimo della vita, sulla preziosa amicizia di chi sta passando le stesse problematiche e può capire fino in fondo quello che si prova, fornendo un aiuto concreto e non solo di facciata. Il film che pone l' accento sulla condizione degli anziani che spesso costituiscono un peso per la società, un problema da gestire per i figli che non trovano il tempo e le forze sufficienti da dedicare loro. Molto coinvolgente anche la scelta di esplorare il legame speciale che si instaura con il nipote adolescente che si affaccia alla vita con i problemi di una generazione confusa e depauperata del futuro e si relaziona con la senilità profonda e saggia che avrebbe ancora molto da dire e da fare se non si pensasse sempre molto più frequentemente a relegare le persone anziane nelle strutture protette per non avere inutili preoccupazioni. Un film che stilla dolcezza, tenero che ha nella protagonista uno dei suoi maggiori punti di forza. June Squibb è un' attrice formidabile che regge in modo superlativo i bellissimi primi piani che catturano le sue espressioni mettendo in evidenza quel meraviglioso reticolo di rughe che testimoniano il trascorrere di una vita piena che ha elargito gioie, dolori, dispiaceri ma anche tanto stupore e divertimento perché contro il tempo che passa inesorabile si può solo cercare di impiegarlo proficuamente per diventare persone migliori offrendo qualche esempio da condividere per sentirci meno inutili e andarcene con l'animo in pace. Il ritmo del film è ben scandito da un montaggio serrato che mantiene desta l' attenzione insieme ad una colonna sonora che sottolinea con efficacia i momenti più poetici e conferisce risalto alle scene più adrenaliniche. Il cast è ben amalgamato e restituisce sulla scena affiatamento e complicità. Un film riuscito che fa sorridere ma anche riflettere.  
 
Virna Castiglioni

Anora

Giovedì 07 Novembre 2024 17:45
Anora” mostra la disintegrazione di un sogno, il fallimento di un desiderio di riscatto sociale quando lo si fa dipendere esclusivamente da un incontro con l’uomo propizio delegando solo all’esterno qualcosa che può essere solo autonomo per funzionare e rimanere duraturo. La felicità e la realizzazione personali completamente delegate ad un uomo poteva accadere nelle pellicole americane degli anni ottanta che riflettevano un retaggio culturale ancora oggi duro a morire in alcuni frangenti ma non può più essere il modello di rappresentazione ancora in auge alle soglie del terzo millennio.   La prima parte del film è una sporca, livida rivisitazione di un film cult del passato perché Anora detta Ani come la Pretty Woman Vivian di un tempo fa lo stesso duro lavoro che è poi anche il più vecchio del mondo.  Vende il suo bellissimo corpo a facoltosi uomini. Non lo fa più per strada ma all’interno di un night club per stimati professionisti in cerca di facili avventure senza inutili complicazioni sentimentali. Il vero motore dei cambiamenti però può essere solo l’amore, quello vero, un sentimento sincero e disinteressato ma in questo caso non si ravvede nessun innamoramento ma un banale e triviale scambio di favori. Anora è in cerca di un miglioramento (come tutti del resto) e se all’inizio è scettica della fortuna che inaspettatamente le corre incontro poi un po' ci crede di avere trovato l’occasione giusta per svoltare. Purtroppo sul suo cammino trova Vanja. E’ solo un ricco rampollo viziato che gioca a fare l’uomo vissuto ma rimane un moccioso che ama starsene inchiodato davanti ai videogiochi e cerca di stupire con i mezzi importanti che derivano solo dall’essere discendente di un oligarca russo potente e sfacciatamente ricco. Ad un certo punto questo impianto viene letteralmente sconvolto dalla volontà dei genitori di riportare tutto all’origine per non destare scandali e vedere la casata cui appartengono infangata e messa alla berlina sulla stampa nazionale dalle intemperanze di un figlio viziato e ingrato.
 
Un film che si prende gioco del sogno romantico e lo fa a pezzi divorandolo in un sol boccone per vomitarlo in faccia allo spettatore. Niente di puro e importante può nascere da pessime intenzioni e l’unico modo per non farsi male è quello di stare con i piedi per terra senza credere che ad un certo punto possa arrivare qualcosa o qualcuno dall’esterno a salvarci senza che noi facciamo nulla per costruire la nostra personale felicità. Anora è una giovane ragazza misteriosa dal passato indefinito che non vorrebbe nulla dagli altri fino a quando una prospettiva diversa le si palesa davanti e sembra facile da raggiungere, senza particolari sforzi. Quando Vanya le fa credere di essere interessato a lei non solo dal punto di vista fisico ma le propone addirittura il matrimonio anche le fantasie più sfrenate sembrano trovare terreno fertile sul quale correre. Il film ha un buon ritmo narrativo e si avvale di un montaggio efficace. La scrittura dei personaggi è ben delineata e l’interpretazione degli stessi, anche dei ruoli minoritari, appaiono impeccabili. Tutto sembra girare alla perfezione fino all’entrata in scena della famiglia del giovane rampollo che viene preceduta dall’irruenza degli scagnozzi e guardaspalle che cercano di riportare con le buone ma anche con le cattive la pecorella smarrita all’ovile e porre fine al matrimonio contratto un po' per gioco e un po' per sfida a Las Vegas ma che avrebbe comunque conseguenze legali oltre a imbarazzanti strascichi di immagine.
 
A questo punto della messa in scena qualcosa si inceppa, il film annaspa, si allunga stiracchiato e diventa ripetitivo, stancante nella dinamica di inseguimenti al giovane fuggitivo che impaurito dall’incombere dei genitori furiosi, come un coniglio braccato, cerca di allontanarsi e far perdere le sue tracce, almeno per qualche tempo sufficiente a far calmare le acque agitate dopo l’ennesimo colpo di testa.
 
Interessanti i punti di vista dei personaggi che mettono in scena uno psicodramma collettivo con le proprie ragioni e le proprie scelte comportamentali, i propri ideali e i propri valori e si ritrovano a gestire situazioni che li fanno riflettere sulla propria misera condizione umana che non può ambire ad un riscatto senza porre in essere anche un ravvedimento operoso interiore.
 
Anora” è in sintesi una favola al contrario o il dissacrante smontaggio della favola per eccellenza quella gran fortunata di “Cenerentola” che al ballo incontra il suo principe azzurro per vivere tutti felici e contenti che ha fatto da sfondo a notti serene prima di addormentarsi per miliardi di bambine in tutto il mondo convincendole, a torto, che bastava essere dotate di una innata elegante bellezza ed essere gentili ed accondiscendenti nei confronti di chi ci porgeva il braccio, se costui fosse stato facoltoso e si sarebbe avverato ogni desiderio.
 
Il denaro però non può comprare tutto e non serve a nulla quando l’obiettivo è la felicità. Per essere felici serve solo l’amore prima di tutto verso se stessi, senza compromessi. Tutto il resto è una scorciatoia che ci fa precipitare nel vuoto.
 
Virna Castiglioni

Il mio giardino persiano

Lunedì 27 Gennaio 2025 15:05

Ambientato in Iran, con protagonista una coppia di anziani, è la storia di una profonda solitudine. Mahin è una donna vedova da molto tempo e con la figlia lontana, emigrata in Europa. Trascorre il suo tempo principalmente in casa accudendo le piante del suo bellissimo giardino. Non vede molto spesso le amiche anche se vorrebbe e non ha neppure occasione di frequentare luoghi pubblici in cerca di nuove amicizie. Questo anche perché vive a Teheran dove vige un controllo serrato e dove la polizia morale esige il rispetto di regole severissime, alcune assurde. Però un giorno, a pranzo in un ristorante, nota un uomo anch'esso solo e scatta in lei qualcosa. È ora di prendere di nuovo in mano la vita, ricominciare a volersi bene, dare ascolto alle amiche che la vorrebbero di nuovo sistemata. Al tavolo opposto al suo siede un uomo anch'esso solitario e decide di fare il primo passo. Un passo faticoso ma necessario per cercare di ritrovare un po' di felicità. "Il mio giardino persiano" che nel titolo originale, in linea con il finale scelto si intitola "My favourite cake" è un film delicato, che parla di buoni sentimenti, della capacità di affidarsi a qualcuno e anche della voglia, dopo tante rinunce e troppi dolori, di prendersi una rivincita e di lasciare il passato alle spalle ricominciando a ridere ancora, a ballare di  nuovo, a divertirsi. Tutti hanno diritto ad essere felici e, a volte, basta davvero poco per riuscirci. Il film si avvale di un cast di attori che recita con grande naturalezza conferendo alla storia raccontata un sapore genuino. La coppia formata dagli attori Lili Farhadpour e Esmaeel Mehrabi ha una chimica speciale e fa immediatamente scattare la vicinanza con lo spettatore. Quest' ultimo è anch'egli invitato, come il tassista timido e impacciato Faramarz, a varcare la soglia e ad entrare in una casa umile ma decorosa dove non risuona ancora la musica ma ha tutto quello che serve per iniziare a danzare. Purtroppo, si sa, al destino piace giocare brutti scherzi e non sempre quello che sembra essere naturale, giusto, auspicabile e prevedibile avviene. Un peccato veniale commesso per rendersi più sicuro di sé stesso e non rischiare di sfigurare si trasforma nella causa involontaria che fa crollare tutto il castello di sogni che si stava faticosamente costruendo. Non resta nient'altro da fare, ancora una volta, che accettare la mala sorte ma continuare a lottare per raggiungere un posto al sole e non spegnere mai più le luci che, riparate da mani pazienti e amorevoli, hanno saputo rischiarare un angolo di mondo rimasto al buio per troppo tempo. Il racconto privato, così emozionante, è anche una critica sottile e velata ma persistente al regime repressivo iraniano, soprattutto nei confronti delle donne, che nega loro, a differenza degli uomini con cui si mantiene più lasco, fondamentali diritti che agli occhi degli occidentali sembrano impossibili da mettere in discussione ma per coloro che vivono in Iran sono invece sempre in bilico e possono essere disconosciuti da un momento all'altro.

Virna Castiglioni

Emilia Perez

Giovedì 09 Gennaio 2025 15:11

Una torta composta da molti ingredienti ma perfettamente amalgamati per donare allo spettatore la convinzione di aver assaporato qualcosa di nuovo, strano, ma sicuramente ricercato e di ottima esecuzione.

Il film racconta la storia drammatica di un boss di un cartello del narcotraffico messicano. Manitas è un feroce criminale. La sua vita prende una svolta quando il suo desiderio di abbandonare un' esistenza pericolosa diventa impellente ma soprattutto si risveglia in lui quella volontà, sopita a lungo, di mutare anche il genere sessuale di nascita. Nell' ombra nel quale si muove disinvolto,   intercetta l’avvocato Rita Castro vedendo in lei chi potrebbe riuscire, dietro lauto compenso, a realizzare il suo sogno, permettendogli di ricostruirsi, impunito, una nuova identità.

Rita Castro, interpretata magistralmente da Zoe Saldana, è una giovane donna di colore brillante e preparata nella sua professione forense ma dipendente da un capo bianco meno dotato di lei. Le arringhe vincenti presentate in aula dal suo superiore sono frutto unicamente del suo studio e della sua preparazione. Sebbene non sia orgogliosa di difendere criminali e colpevoli certi, è costretta a farlo conseguendo sempre anche ottimi risultati. In una società malata e corrotta dal denaro chi è più ricco ha anche la possibilità di comprarsi l’assoluzione, indipendentemente dal reato commesso. Quando due insoddisfazioni si incontrano l’unione di intenti può fare miracoli.
Castro accetterà, per denaro e voglia di riscatto, di assecondare il desiderio di Manitas di realizzare un profondo cambiamento. Manitas non sarà l’unico personaggio ad evolversi a e cambiare. Lui, la sua giovane moglie Jess (altra interpretazione vincente affidata a Selena Gomez) e la giovane avvocatessa rappresentano nel racconto tre riscatti, tre ripartenze, tre rivincite, tre evoluzioni. Il regista anche nelle sue pellicole precedenti è sempre stato molto interessato alle storie di cambiamenti ed Emilia Perez non fa eccezione.
Attraverso la musica, le coreografie e le canzoni Jacques Audiard racconta una storia nera senza sminuire e banalizzare mai. Ci trasporta in un melodramma, in un musical mantenendo però sempre vigile il focus su un racconto di riabilitazione morale.
La regia opera un iniziale straniamento funzionale a catturare totalmente l’attenzione dello spettatore. Una volta agganciato quest’ultimo viene trascinato in un vortice di musica orecchiabile, balli, canzoni riuscendo nel compito assai difficile di non perdere mai il baricentro sul racconto di un’esistenza violenta e criminale. Lo spettatore si ritrova totalmente coinvolto, attratto dalla vicenda umana e incuriosito da un racconto estremamente lucido che si avvale però molto dei toni edulcorati della commedia e del musical. Le attrici scelte sono perfettamente in parte, sanno incarnare modelli diversi, sono paradigmi differenti di come si può subire il male e di come ci si può ribellare ad esso. Se per l’avvocato la conoscenza, lo studio, la preparazione meticolosa sono lo strumento di affrancamento e di rivincita per il Chapo è il pentimento che smuove la coscienza e riabilita un vecchio sogno di essere qualcun altro rinnegando il passato che lo ha reso potente e ricchissimo quanto disumano. Jess è la giovane moglie che vive di passione e si abbandona ad essa totalmente relegando la razionalità e il bene supremo ad un angolo sempre più piccolo fino a farlo scomparire del tutto.

Audiard si conferma abile nel comporre un affresco a tinte forti capace di suscitare continuamente emozioni. Il film si conclude, forse, nell'unico modo possibile e anche un pò prevedibile ma, da maestro consumato, sa stupire ancora un'ultima volta per mettere il punto finale ad un opera che spariglia le carte ma lo fa per ricomporre subito dopo un meraviglioso nuovo disegno.

Virna Castiglioni

Oh Canada - I tradimenti

Giovedì 16 Gennaio 2025 15:17
A distanza di oltre quarant’anni Paul Schrader e Richard Gere tornano a collaborare per portare sul grande schermo la biografia di Leonard “Leo” Fife, documentarista statunitense naturalizzato canadese. Tratto dal libro “i tradimenti” (Foregone) di Russell Banks il racconto è una lunga intervista che Fife in punto di morte e, assistito dall’ultima giovane moglie, concede a due dei suoi migliori ex alunni per svelare i segreti della sua vita facendo emergere verità tenute nascoste agli altri e un po' celate anche a se stesso.
Gere ha sempre la statura che lo ha consacrato attore di talento, il contraltare Job Elordi che interpreta lo stesso personaggio in età giovanile ha ancora una lunga strada da percorrere anche se il suo ricco potenziale è già evidente.
Il film non suscita particolari emozioni, si mantiene tiepido e quasi didascalico. Quello che emerge, con forza nell’impianto, è la padronanza del mezzo cinematografico da parte di un regista che sa di essere bravo e non perde occasione per mettere in mostra le sue doti di cineasta navigato.
Utilizzo di due formati di ripresa diversi: fullscreen e widescreen, uso sapiente di bianco e nero e colore, alternanza funzionale di primi piani e panoramiche, combinazione di realtà e finzione, presente infarcito di flashback ben raccordati.
Purtroppo non basta affidarsi totalmente alla tecnica e alla bravura degli interpreti scelti per costruire un racconto in grado di rimanere nel cuore e nella mente dello spettatore. Qui c’è molto mestiere ma molta poca anima e si arriva alla fine della proiezione senza esserne troppo dispiaciuti.
Il lungometraggio non ha la forza propulsiva affinché lo spettatore si possa immedesimare o quanto meno possa capire, forse anche giustificare le scelte compiute oppure semplicemente odiare per il modo disinvolto e per nulla rispettoso degli altri di condurre l’esistenza.
Per tutta la durata si viene investiti da una serie di fatti, di episodi, di circostanze, di avvenimenti che non sono però mai anche supportati dalla giusta dose di pathos. Per questo il racconto rimane forse fedele al vero ma risulta poco interessante, non memorabile, scivola nella mente che non rimane impressionata, colpita, non tocca le giuste corde del cuore e non interroga l’anima. Tutto si mantiene neutro con nessun momento di vera commozione, di vero patimento, di vicinanza o repulsione ad un uomo che si spoglia in punto di morte della maschera della rispettabilità.
Assistiamo alla registrazione di una confessione ma non siamo portati ad empatizzare e dopo poco siamo anche un po' annoiati dalle imprese di un uomo che codardamente riesce a farsi riformare dall’esercito americano, vorrebbe prendere parte alla rivoluzione castrista a Cuba ma non riesce ad andare oltre la Florida, diserta in Canada e nel frattempo vive, in modo libertino la sua vita sentimentale, non curante di fare del male a donne e ai figli che ne conseguono.
Acclamato e osannato nella vita pubblica la sua confessione prima di spirare è il rovescio della medaglia che cela il lato più vigliacco e superficiale dell’aver vissuto i rapporti umani fuggendo in continuazione dalle responsabilità inseguendo un sogno che mutava repentinamente e non gli lasciava mai il giusto tempo di prendere la decisione meno egoistica e decisamente più nobile.
 
Virna Castiglioni
 

Wolf Man

Giovedì 16 Gennaio 2025 15:24
Il film sfrutta una serie di luoghi comuni tipici del genere al quale afferisce. L’ambientazione è una casa isolata al limitare del fitto bosco che rasserena e concilia durante il giorno ma può diventare inquietante e spettrale al calare della notte. Il male è fuori dalla porta, in agguato, sempre pronto ad attaccare.  La montagna che incombe è foriera di miti e leggende. Pur sforzandosi di introdurre qualche elemento di discontinuità rispetto all’originale racconto di licantropi non si riesce nell’operazione di trascinare lo spettatore in un vortice di sorpresa e stupore perché tutto avviene con molta prevedibilità. I momenti tensivi si sciolgono quasi sempre come ci si aspetta che debbano concludersi. Si assiste ad una lotta con il nemico che da esterno, estraneo si fa intimo e personale e chiama in causa la capacità di scindere tra affetti e istinto di sopravvivenza ma questo topos rimane in superficie.
 
Un horror puro che ha molti limiti a partire dalla storia che vede l’utilizzo massivo di elementi già indagati ed esplorati a sufficienza in pellicole anche di recente realizzazione. Un film che ripropone gli stessi schemi già visti e che perde quindi l’effetto straniante e avvincente delle prime volte e della sorpresa nel trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato e di originale.
 
Julia Garner sembra spaesata all’interno della pellicola e le sue espressioni di paura e terrore sono poco realistiche. Appare troppo enfatica, teatrale, forzata, facendo perdere quella naturalezza che è la cifra vincente della recitazione in questo tipo di pellicole.
 
Decisamente più convincente la performance attoriale del protagonista maschile Christopher Abbott che appare più disinvolto e calato nella parte. Da salvare senza ombra di dubbio tutte le scene in cui avviene progressivamente la trasformazione da umano ad animale che è ben documentata riuscendo a scandire in modo dettagliato le vari fasi a cui va incontro mantenendo un buon equilibrio fra aspetto fisico e quello più psicologico.
 
In generale un film che non apporta uno svecchiamento rispetto ai film datati riguardanti lo stesso argomento ma anzi ne sembra una copia sbiadita senza mordente.
 
Un film che si segue sperando fino all’ultimo di poter assistere ad un colpo di scena eclatante che riabiliti l’intera pellicola rimanendo purtroppo delusi e disillusi.
 
Una prova non superata fino in fondo pur mantenendo un livello ragguardevole per quanto concerne la fotografia, l’utilizzo degli effetti speciali incentrati sulla trasformazione da umano ad animale ma che avrebbe bisogno di esser revisionato per quanto concerne la sceneggiatura e l’utilizzo delle riprese di momenti topici della narrazione che risultano artefatti e poco incisivi rispetto a quanto sarebbe stato necessario per conseguire un buon risultato.
 
Virna Castiglioni

Io sono ancora qui

Lunedì 27 Gennaio 2025 15:31

"Io sono ancora qui" è un affresco familiare nel Brasile degli anni bui della dittatura militare. Prima della rivoluzione del 1964 Rubens Paiva era un deputato laburista e aveva tutto quello che un uomo perbene può desiderare per essere felice e condurre un'esistenza appagata. Un lavoro impegnato, una moglie innamorata e complice e cinque splendidi figli che portano allegria e confusione in una bella villa arredata con gusto e tenuta con ordine. Una casa sempre aperta ad amici con cui trascorrere il tempo fra conversazioni serie ma anche tanti momenti conviviali e spensierati. Il pericolo però è appena fuori dalla porta e si fa sempre più aggressivo. È minaccioso. Intimorisce. Sembra poter rivolgere i suoi strali sulla figlia maggiore Veronica che simpatizza per i movimenti studenteschi antigovernativi avversi al Regime.

L' occasione per toglierla da un pericolo che potrebbe lambirla fino ad inghiottirla giunge propizio da una famiglia amica che prende la decisione di trasferirsi a Londra e non esita ad estendere l' invito a seguirli. Loro non accetteranno ma lasceranno che la loro primogenita si allontani in cerca di un futuro migliore.

Tutto sembra tornare ad una pseudo normalità anche se soffiano venti preoccupanti. Si susseguono nel Paese rapimenti di intellettuali e sequestri di ambasciatori che vengono utilizzati come merce di scambio a fini politici. 

Un giorno che sembra essere come gli altri fra l' allegria dei ragazzi che vivono di fronte alla spiaggia e si alternano fra giochi e rientri repentini al solo scopo di mangiare qualcosa velocemente e cambiarsi per poi tornare di nuovo fuori irrompe la violenza. Vile, bieca. 

Il padre viene arrestato e portato in caserma per riferire e chiarire avvenimenti che lo riguardano. Poco dopo la stessa sorte verrà subita dalla moglie e dalla secondogenita. Se per le due donne l'incubo fortunatamente giunge ad una conclusione veloce il padre e marito amorevole, invece, non farà mai più ritorno. Il regista Salles ci racconta una delle peggiori pagine della Storia del Paese carioca ma, a differenza di molte altre pellicole, sceglie di raccontare il dramma dal punto di vista di chi resta, di coloro i quali devono affrontare una perdita ma devono anche farsi forza per andare avanti. La madre Eunice lo deve ai suoi cinque figli. Si impone di rimanere lucida e razionale, cerca con ogni mezzo a sua disposizione di proteggere chi è stato investito da un dolore troppo grande senza averne colpe e senza poter sapere le reali motivazioni che hanno determinato questa situazione.

Per questo racconto di resistenza, pacifico e composto, il regista si avvale di un' attrice immensa che da metà pellicola in avanti porta sulle sue minute spalle tutto il peso della narrazione. 

Intensa e perfettamente in parte nel rappresentare la dignità e la compostezza di chi non può permettersi il lusso di piegarsi al dolore ma deve imporsi di sorridere e cercare di regalare alla propria famiglia, sebbene mutilata e umiliata, una parvenza di normalità conservando un po' dell'armonia che regnava prima che tutto precipitasse. 

Il film è tratto dal romanzo omonimo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva ultimogenito della coppia protagonista della pellicola e, al tempo dei fatti, solo un bambino che viveva felice in un gineceo di sorelle più grandi.

Con una rigorosa ricostruzione degli avvenimenti, senza mai calcare la mano, il regista restituisce allo spettatore una sincera e profonda commozione. 

La regia appare misurata, senza eccessi. Non esagera nel mostrare ma semmai fa intuire senza esporre troppo. Non racconta mai più del necessario. 

La fotografia firmata da Adrian Teijido restituisce la bellezza naturale di un luogo baciato dal sole, ne cattura tutta la desolazione quando l' ambientazione è la claustrofobica cella di detenzione o l' ufficio tetro e buio dove si svolge l' interrogatorio sommario, sottolinea la nostalgia e la sofferenza quando si è costretti ad abbandonare la casa familiare per iniziare una nuova vita che avrà colori diversi. 

Il commiato affidato ad un'altra attrice cara al regista suggella con un tocco di tenerezza quello che rimane di una straordinaria storia che assurge a simbolo di migliaia di altre storie simili e uniche in un Paese che ha costretto interi nuclei familiari a fare i conti con una pagina cupa della Storia che ha distrutto vite, cambiato destini, sparso immenso e gratuito dolore ed è rimasta nella memoria collettiva come una ferita che non si è mai rimarginata del tutto ma rimane ancora oggi pulsante e suppurante. 

Presentato in concorso all' ultima mostra internazionale cinematografica di Venezia il film si è aggiudicato, meritatamente, il premio per la migliore sceneggiatura. L' attrice protagonista non è stata insignita della prestigiosa Coppa Volpi ma è riuscita a conquistare il Golden Globe e questo risultato è il giusto coronamento di un lavoro attoriale superbo. 

Virna Castiglioni

 

Liliana

Lunedì 20 Gennaio 2025 15:50
Uno straordinario ritratto di una donna forte, resistente, combattiva, che ha scelto, autoimponendoselo, la vita nonostante tutto.
 
Dopo una brutta depressione ha deciso di raccontare al mondo quello che aveva vissuto (forse non nella sua più brutale versione come sostiene la figlia minore) per estirpare quel male che a soli tredici anni i nazifascisti le avevano inferto segnandola per sempre. Liliana Segre è una delle testimoni italiane più anziane di quel terribile passato.
 
Ancora molto lucida e attiva, svolge un' importante lavoro di divulgazione nelle scuole per raccontare ai ragazzi quello che l' uomo è stato in grado di compiere di terribile nei confronti di altri essere umani, suoi simili. Lo spirito indomito che la contraddistingue, le ha consentito di sopravvivere alla prigionia, alla morte del suo amato padre e dei suoi nonni paterni e le ha permesso di poter risorgere dopo un lungo periodo di buio. Liliana Segre è riuscita a superare le sofferenze atroci che hanno provato non solo il suo corpo ma soprattutto la sua anima e la sua mente. Grazie all' amore di un marito amorevole e la gioia di tre figli. Quel numero 75190 tatuato sull'avambraccio e che neppure il tempo trascorso è riuscito a sbiadire è un segno indelebile sulla pelle ma è soprattutto il marchio che racchiude l' abominio perpetratole. La voce calma e pacata di Liliana Segre racconta l'orrore vissuto senza mai mostrare rabbia, perché il male subito non ha saputo annullare la sua educazione, la sua etica, la sua personalità che è rimasta intrisa di cultura di vita. Sempre, anche nei momenti peggiori, quando poteva essere naturale e anche giustificato un ricorso all'odio. Neppure il sentimento di vendetta riuscì a impossessarsi di lei.  Nemmeno durante la marcia della morte protrattasi per giorni in fuga dal campo di Auschwitz fino ad un campo più decentrato. Costretta dai suoi aguzzini che, sentendosi braccati cercarono di fuggire occultando le prove delle loro nefandezze, avrebbe avuto occasione per uccidere ma non lo fece. Mai avrebbe potuto diventare un'assassina. Il documentario si fregia di una bella fotografia che riprende dall'alto i luoghi simbolo della Milano, città che le diede i natali, il campo di prigionia fino alle aule del Parlamento insignita del titolo di Senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per finire con l'aula Magna dell'Università Statale di Milano per il conferimento della laurea honoris causa magistrale in Scienze Storiche. Con un sottofondo musicale evocativo che accompagna le parole di questa fragile e forte donna è difficile trattenere le lacrime e, dopo la visione, rimanere indifferenti ripensando al dramma di cui è stata protagonista involontaria insieme a sei milioni di uomini e donne, colpevoli solo di essere ebrei. 
 
Virna Castiglioni
 

A Complete Unknown

Giovedì 23 Gennaio 2025 15:55
Nel 2016 Bob Dylan ottiene il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana» ma, come se fosse cosa ordinaria, non si presenta neppure alla cerimonia di premiazione. Allergico ai riconoscimenti, antidivo per eccellenza e refrattario al successo sebbene sia diventato uno dei più grandi di tutti i tempi.
 
Il biopic  “A complete Unknown”  del regista James Mangold (che già si cimentò nel 2005 con un altro biopic incentrato sulla figura di Johnny Cash, altro mito americano) ripercorre le tappe salienti della carriera artistica di Bob Dylan ed è liberamente ispirato al libro biografico scritto da Elijah  Wald “Dylan Goes Electric”.
 
Fulcro della narrazione è, come giusto che sia, la musica di questo cantautore eclettico e innovativo, poeta e artista visionario dall’incredibile talento musicale che ha spaziato tra vari generi (folk, country, jazz e swing, blues, rock e rockabilly) fondendoli e reinventandoli. Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) il film pone l’accento sul suo contributo importante e dirompente nell’utilizzo del suono elettronico all’interno della tradizione della musica folk. Dylan seppe compiere una vera e propria rivoluzione copernicana che lo fece percepire dal suo pubblico adorante dapprima come un alieno, un traditore, un ingrato, un impostore. Invece Bob era solo un pioniere che aveva capito il potenziale della contaminazione fra generi e ne aveva saputo fare un uso di grande impatto.
 
Timothée Chalamet, anche in questa nuova prova, per nulla facile, si conferma attore di spessore capace anche di non deludere nell’interpretazione dei tanti brani (oltre quaranta canzoni appartenenti all’arco temporale 1961-1965 registrate dal vivo anche se non tutte utilizzate), eseguiti senza l’ausilio del playback, che costellano la pellicola.
 
Reso molto somigliante al giovane Bob soprattutto dall’acconciatura rimasta pressocché sempre identica riesce nell’impresa di renderlo in modo aderente al vero dal punto di vista non solo estetico ma anche raggiungendo in pieno l’obiettivo di farlo ricordare nei modi di fare e nel modo di pensare e agire. Una prova superata a pieni voti. Nel cast è affiancato da altri attori di elevato calibro: fra tutti spicca Edward Norton che interpreta Pete Seeger.
 
Quello che, pur non disturbando la visione, non è entusiasmante è la cronaca dei suoi amori importanti. Vengono raccontati come se si dovesse per forza fare il computo delle storie avute ma senza infondere particolare trasporto o emozione.  Molto intensi, invece, sia il primo incontro che il commiato finale di Dylan con il suo idolo, il cantante e chitarrista folk Woody Guthrie, che era molto malato.  Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) Dylan ha rappresentato il trait d’union fra la vecchia guardia della musica folk americana e un nuovo modo di scriverla e cantarla.
 
Il film, volendo tentare una estrema sintesi, si può definire uno scrigno che racchiude magnetica bellezza, maniacale cura, fascino senza tempo ma soprattutto rende merito alla musica sublime composta e interpretata da questa icona mondiale.
 
Virna Castiglioni
 

Luce

Giovedì 23 Gennaio 2025 16:00

"Luce" è interamente sorretto dall' intensa interpretazione della protagonista Marianna Fontana. Per l'intera durata i registi Bellino e Luzi utilizzano primi e primissimi piani per scrutare e restituire allo spettatore ogni suo stato d'animo e ogni cambiamento, anche millimetrico, che si determina con il passare dei giorni e degli avvenimenti che si susseguono. Il suo giovane viso è la cartina di tornasole di quello che ha intorno ma che appare sempre sfocato, indistinto, evanescente. Il contesto è un luogo fisico che sembra però essere immaginario e immaginifico. La regia blinda lo spettatore e non gli concede quasi mai di allargare lo sguardo, anche nelle poche scene che prevedono la presenza di altri personaggi è sempre tutto ricondotto a questa giovane ragazza e al suo modo di reagire a quello che subisce quotidianamente. È sola, svolge un lavoro usurante, non ha un amore, vive di desideri. Per resistere in quel deserto culturale che attraversa si costruisce un personaggio che diventa il suo alter ego, una donna ideale che potrebbe essere se non fosse compressa, costretta in un luogo squallido, a condurre una vita miserabile, privata degli affetti più cari. Si inventa un modo per evadere dalla sua prigionia mentale cercando di raggiungere l'unico legame di sangue che ancora le rimane. Il padre  detenuto che non vede da anni. Grazie ad una intuizione (un telefono recapitato con un drone) e, ricercando la complicità di un estraneo, potrà ripristinare, forse, un dialogo interrotto. Da questo momento in poi il colloquio telefonico con il padre (vero o presunto) diventerà lo sprone per alzarsi al mattino, l' unico motivo di vita, talmente importante da rischiare punizioni. Sarà il solo unico confidente, diventerà l'amico, il fulcro di tutto. Il film ripropone uno schema già visto in altre pellicole passate. Tra tutte "Locke" di Steven Knight e il film italiano di Manfredi Lucibello "Non riattaccare". Non sempre però funziona questo gioco teso fra un personaggio che vive alla luce del sole anche se è pieno di lati oscuri e un' altro che non conosceremo mai se non attraverso la voce (in questo caso quella profonda e intensa di Tommaso Ragno), nell' ombra ma in grado di portare uno spiraglio di luce in chi lo ascolta.

Un film che, con coraggio e un po' di spregiudicatezza, indaga l' animo umano. Fa di tutto per restituire i sentimenti e le emozioni che si possono provare quando si vive una vita di privazioni, in primis affettive, non si ha una direzione, un esempio da seguire, non si trovano appigli e proprio come un gattino che prova ad allontanarsi per cercare qualcosa di migliore non riesce più a trovare la strada di casa.

Un film intimista che non arriva immediatamente ma ha bisogno di sedimentarsi nell' animo e nel cuore dello spettatore che rimane a lungo in attesa di una svolta, di un colpo di scena ma si deve accontentare di un finale aperto sperando in un lieto fine.

Virna Castiglioni

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